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Gianfrancesco Trutta

 

CRONACA DI QUATTRO SECOLI

 

(in Annuario ASMV 1977 pp. 254-279)

 

Introduzione

 

Un cenno biografico è necessario.

La famiglia Trutta, assai distinta da potersi dire nobile, è di Napoli, ove tuttora esiste abbastanza ramificata.

Negli ultimi anni del Seicento, due fratelli, Valenzio e Gaetano sacerdote si trasferirono a Piedimonte Matese, non sappiamo per qual ragione. Valenzi sposò Rosa de Grazia, e dall’unione venne una numerosa discendenza: il primo figlio, Marzio, nacque a Napoli nel 1694, segno che i genitori non si erano ancora stabiliti definitivamente ai piedi del Matese. Ad eccezione del penultimo, gli altri nacquero a Piedimonte. Furono: Prudenza, nata il 17 Giugno 1697, Giovan Francesco Maria Marcellino Giuseppe Giacomo il 14 Agosto 1699[1], Giacomo Antonio il 15 Maggio 1701, Prudenza Maria Petronilla il 15 Novembre 1703, Giovanni Antonio il 10 Dicembre 1705, Girolamo nato a Napoli nel 1706, e Angela a Piedimonte il 17 Giugno 1707. Marzio, Giacomo e Girolamo studiarono Legge (Girolamo riuscì bene anche in pittura), Gianfrancesco compì gli studi ecclesiastici laurendosi in Diritto canonico e civile. Insomma una famiglia colta, cui dettero più estesa fama nella capitale alcuni parenti stretti, don Nicola Trutta che pubblicò un Catechismo per le sante missioni (Napoli 1776), e Giovan Battista Trutta, autore di un Novello giardino della prattica ed esperienza (Napoli 1785).

La casa natale di lui? L’attuale palazzo Trutta al Vicinato fu edificato nel ‘700, e affrescato da Girolamo. Per essere stati battezzati in S. Maria Maggiore, la prima casa dell’unica generazione piedimontese dei Trutta si trovava nell’antica Piedimonte.

Benché non lontano nel tempo, le notizie riguardanti il nostro archeologo sono tanto mai lacunose.

Frequentò il seminario, aperto dal 1691 nel luogo attuale, e non è da escludere che ne sia stato alunno negli anni in cui ne era rettore l’abate Nicola Occhibove, altro colto ecclesiastico piedimontese, autore dell’opera didattica De canone studiorum (Napoli 1716). Dopo ordinato prete, divenne canonico dell’Annunziata, poi passò a S. Maria Maggiore (1755), e nel 1776 ne divenne arciprete, primo dignitario ecclesiastico di Piedimonte. Negli anni precedenti era stato pro-vicario della diocesi e rettore del seminario.

Cessò di vivere l’11 Dicembre 1786, ottantasettenne, e fu sepolto nell’ipogeo riservato ai canonici, sotto S. Maria Maggiore[2].

La via ove sorge il palazzo è intitolata a lui. Anche Alife e San Potito hanno intitolato una strada al suo nome.

 

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Passiamo ora al suo profilo culturale.

Da tanti fatti non appare un uomo statico e pesante. Pur risiedendo abitualmente a Piedimonte, ove era legato all’ufficiatura quotidiana in S. Maria Maggiore, dagli scritti ci appare spesso in movimento.

Da giovane e colto prete, don Gianfrancesco aveva fatto il precettore in casa Gaetani d’Aragona, all’orfano di una Gaetani, don Raimondo de Sangro Principe di San Severo, poi inventore e scrittore, col quale salì a Monte Miletto in una spensierata escursione. E a palazzo ducale avvicinò la delicata poetessa arcade, principessa Aurora Sanseverino Gaetani, ormai al declino.

I Trutta continuarono a tenere aperto il loro palazzo a Napoli, a San Giovanni a Carbonara, nel cui giardino portarono a far bella mostra, un frammento del calendario alifano. Segno che vi ricevevano esponenti della cultura, i quali poi, venendo a Piedimonte, ricevevano da essi ospitalità e guida.

L’ingegno versatile lo rese adatto anche alla poesia. È lui Montano del Matese, che intervenne alle accademie poetiche del Caprario, a Formicola[3], facendo precorrere nel suo nome arcadico quello attuale del paese natale, intitolato a quel Matese che egli percorse accompagnandovi il botanico D. Cirillo.

Prodotto della sua intelligenza e della grande cultura acquistata, furono tre scritti di genere diverso: poesia, archeologia e storia ecclesiastica locale.

Le poesie si trovano nelle due opere « Il Caprario » (Napoli 1729 e 1732). Gli studi archeologici furono sintetizzati e pubblicati da lui nelle Dissertazioni istoriche delle antichità alifane (Napoli 1776), quando aveva settantasette anni, prova che ci aveva lavorato sopra tutta la vita.

La storia ecclesiastica di Piedimonte dal ‘400 ai suoi tempi, fu da lui esposta nella Cronaca di quattro secoli, che non pubblicò.

 

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La Cronaca, già citata nelle Note storiche di Piedimonte di M. Perrotti (Piedimonte 1896), ritrovata dallo scrivente in un volume manoscritto di S. Maria Maggiore, è stata sottoposta al Consiglio dell’A.S.M.V., il 28 Settembre 1977, con questo giudizio: « Per le numerose notizie di storia ecclesiastica locale, e perché completa il profilo culturale dell’Autore, l’opera inedita dell’arciprete Gian Francesco Trutta Cronaca di quattro secoli, sebbene di natura prevalentemente polemica, si può pubblicare sull’annuario dell’A.S.M.V. ».

Il manoscritto esaminato non è l’originale. È una copia fatta da don Pasquale Sanillo canonico di S. Maria Maggiore, che a pag. 145 pone una data: 26 Maggio 1841.

Quando fu scritta da Trutta?

A pag. 120 dice: « Nelle mie Antichità ho creduto... », dunque è posteriore, e va dal 1776 all’86.

Lo stile è prolisso come quello delle Dissertazioni, ma meno limato. Vi sono cancellati interi righi: idee troppo spinte cassate da qualcuno?...

Non vi manca qualche contraddizione: a pag. 140 del mss. dimentica quanto ha scritto a pag. 191 delle Dissertazioni, e riporta al secolo IX d.C. quanto egli stesso ha ammesso come fatto da Fabio Massimo nel III secolo a.C.. Ma sono deficienze marginali che non intaccano il valore essenziale della Cronaca, che resta un utile notiziario di Piedimonte nel campo ecclesiastico. E poi, sa divagare, e così introduce notizie di un certo interesse in una diatriba sull’autenticità o meno di certe bolle pontificie, come sui primati fra le chiese di Piedimonte, tanti elementi che ci rimandano inevitabilmente a una domanda conclusiva: quale valore ha la storiografia di Trutta?

 

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Elemento positivo innegabile è la quantità di notizie che ci ha trasmesso. Per un secolo e mezzo è stata l’unica fonte di notizie che interessano la nostra storia. Intelligente, intuitivo e preparato, sa completare e integrare il dato mancante.

È legato alla mentalità storiografica antica, per cui dal mito passa alla storia greco-romana e medievale, come dalla sacra Scrittura alla storia ecclesiastica, com’era insegnata, vale a dire che è figlio della cultura del suo tempo. E commette anche errori, spesso dovuti al fatto che vive prima delle scoperte e teorie attuali.

Ignora la Glottologia. Le assonanze gli forniscono qualche etimologia strabiliante: Matese viene da montesi, e questi da montani (i Sanniti); monte Cila da Acilia (una signora cui fu dedicata una lapide in Alife), e Raviscanina dal console Claudio Canina; monte Miletto da mons militum (perché vi si rifugiavano i soldati Sanniti), san Potito (l’abitato) dai Potitii. Non parliamo di quando ricorre al greco per spiegare il significato del nome sannitico di Allife! La colpa non è sua: la Glottologia non esisteva.

Legge bene le lapidi, ma ignora il rapporto fra lapidaria e storia politica. Così, Cornigliano (oggi Madonna del pozzo, a Piedimonte) diventa una villa dei patrizi Cornelii invece che il campo di uno degli 80.000 veterani di Silla; la lapide sul Torrione, tomba della gens Aedia, famiglia plebea romana trapiantata in Alife al tempo della colonia, diventa della gens Fadia, parenti della Casa imperiale! Mommsen, nel C.I.L. ha corretto questi errori.

Nell’attribuzione di una funzione a monumenti, quasi sempre esatto, qualche volta fantastica. I ruderi della villa romana alle Torelle di San Potito diventano le terme di Alife, e il triglifio sul campanile di S. Domenico a Piedimonte gli fa pensare al tempio di Apollo e Marte tutelari di Piedimonte.

Gran lettore di opere classiche, e si vede dall’estesa erudizione nelle Dissertazioni, non ha però studiato al grande archivio di Napoli e, riguardo al Medio Evo va a tentoni, e per questo è giudicato severamente da Alessandro di Meo negli Annali del regno di Napoli. E gli sfugge pure qualsiasi riferimento economico dei fatti storici.

Non era mia intenzione esporre gli errori per denigrare il colto concittadino. Tutti ne commettiamo. Questi sono gli errori, e non posso certo riportare le centinaia di volte in cui vede giusto. Era però necessario farlo, sia per difenderlo dalla taccia di eccessiva fantasia, sia, all’opposto, per scardinarne l’infallibilità. Mantiene un valore consistente. A due secoli dalla pubblicazione, chi ha studiato archeologia solo su quel libro può crederlo intramontabile, ma a chi ne ha scoperto la formazione locale e isolata nella cultura storiografica del ‘700, e per giunta lo vuol sistemare ed inquadrare nell’immenso progresso dell’Archeologia e della Storia nell’Otto e Novecento, appare oggi inevitabilmente ridimensionato.

 

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A pag. 635 del manoscritto si fa notare un’avvertenza del copista, can. Sanillo: « ...Esistono nell’archivio della prelodata Collegiata di S. Maria Maggiore, alcuni Mss. dello stesso, di Notizie istoriche relative alla stessa Collegiata, dei secoli XV, XVI, XVII e XVIII, in carattere autografo, riportati in questo libello, nel foglio 69 fino al foglio 314.

Questi egregii ed eruditi manoscritti del Trutta, oggi conservati nell’archivio suddetto, furono da lui medesimo nomenclamati “Cronaca”, ricopiati in questo libello dal foglio 69 sino al foglio 314 ut supra. Bisogna leggerli per conoscerne la critica, la profondità e l’erudizione. Ma chi li leggerà? ».

I fogli del manoscritto non vanno nell’ordine di cui parla il canonico. Vanno da pag. 1 a 64, e dopo fogli in bianco, da 111 a 314. Ma non è questo quello che conta.

Il manoscritto originale non sta più conservato nel piccolo archivio capitolare di S. Maria Maggiore. Senza il paziente lavoro di copia del can. Sanillo, oggi non conosceremmo la Cronaca di G. F. Trutta, per cui siamo grati alla sua memoria di ordinato e studioso sacerdote del passato (come sono grato ai soci dell’A.S.M.V. dott. Rosario di Lello e prof. Giuliano Palumbo per l’aiuto dato nella trascrizione): Chi li leggerà?... si chiese il copista, dopo tanto lavoro. Li leggiamo, e con interesse. La Cronaca fa rivivere un tempo lontano quando senza laicismo e anticlericalismo, e l’ostentata irreligiosità di dopo, il prete non aveva paura di attaccare e ridicolizzare l’opera del superiore, fermo restando nel dogma.

Non ci si meravigli perciò dello spirito dell’Autore. Così si faceva, sì, però gli ha fatto portare nella Cronaca un grave errore metodologico: invece di riportare il testo latino integrale, lo ha riassunto in italiano, e ha dato sfogo alle sue Osservazioni. Insomma, invece di darci la notizia e lasciare a noi il commento, lo ha fatto lui, lasciando una parte caduca accanto all’altra, interessante, delle notizie, colle quali completa la visione storica delle nostre terre, già iniziata nelle Dissertazioni per l’epoca antica.

Dante B. Marrocco

 

 

 

SECOLO XV¨

 

[1] Non mai si videro nella Santa Chiesa Cattolica maggiori disordini, che quando nel fine del secolo XIV, e principio del secolo XV fu la Navicella di S. Pietro di qua, e di là sbattuta dai Marosi di quel Fiero Scisma suscitatosi in tempo che Urbano VI ne sedeva al governo Ribellati da lui, i Cardinali Francesi, avendo eletto Pontefice il Cardinale di Genera, che prese il nome di Clemente VII, portaronsi in Avignone ad innalzarvi la Cattedra di pestilenza; or chi può dire i mali, a cui soggiacque la Cristianità tutta, divisa in partiti di questo e di quello? Chi può narrare le confusioni, che nacquero dai Concili di Pisa, e di Costanza, che in cambio di estinguere quelle fiamme, maggiormente l’accesero?... E per non parlare di tutti i Regni Cristiani: Francia, Spagna, Alemagna, Inghilterra; la nostra Italia, Principessa delle Pro[2]vincie, quando fu, che si vide più travagliata che allora?... Non dico per le Marziali battaglie, e per le Città della Chiesa, dai Tiranni occupate, ma per le Censure, che illaqueavano le anime, e in perdizione portavanle; esempio doloroso ne fu il Nostro Regno di Napoli, di cui trovassi Regina Giovanna I, che avendo caldeggiato lo Scisma, e dato all’Antipapa l’asilo; come Scismatica, che da Urbano privata venne del Regno, che pretese esser dicaduto alla Chiesa, onde ne investì Carlo III di Durazzo, detto della Pace, che pur indi a poco privato, ne fu come Scismatico dal medesimo Urbano; ma non ostante le sue Sentenze, e Censure, essendosene impadronito Luigi d’Angiò, il di lui successore Bonifacio IX vi riconobbe per Re Ladislao, e la Regina Margherita sua madre… Da che ciascuno può immaginarsi, a quanti disastri furono in tal tempo, soggette queste nostre belle Contrade.

Si accostarono essi prima ad Alife, di cui era allora Conte Goffredo Marzano, che aveva per fratelli Tommaso Gran Camerlen[3]go, e Giacomo Duca di Sessa; tutti e tre ben affetti a Ladislao; ma poi per ambizione di dare in isposa a Luigi d’Angiò Maria, di eso Duca figliuola, fatti di esso rubelli; ma non riuscito il disegno, ecco imprigionato dentro la stessa Capua, che aveva occupato il Conte, e spogliato di Alife e tante altre fortezze (Murat: Strom. 7.8. pag. 382 e 390).

Ecco Alife passata in mano di nuovi Padroni, perduto avendo per sempre il Marzano, dentro il Castello Nuovo di Napoli condannato a finire la vita colla cognata Duchessa di Sessa, e con il piccolo Duca, e le sorelle, figli di lei. Chi sa, in questi accidenti quanta costernazione si vegga in quei paesi che perdono i loro antichi Signori, s’immagini qual flagello fu per le Alifane contrade l’essere miseramente rimaste prive dei Marzani, che erano stati sì prossimi ad unire il loro sangue con quello dei Monarchi. Ma e Piedimonte andò forse esente in tempi sì calamitosi da traversie?... fu egli portato in Dote (nel 1390) da donna Sveva Sanseverino, vedova di Arrigo della Leonessa, da cui avuto l’avea per ragioni Dotali, a Giacomo Gaetani, figliuolo di Onorato I Conte di Fon[4]di. Il matrimonio non poteva essere più vantaggioso per l’una e l’altra parte d. Sveva era Sanseverina, e ciò basta per dirla gran Principessa, e di più Zia carnale di Carlo III di Durazzo, ossia della Pace, ed oltre ciò ben dotata. Giacomo sin dal 1380, era stato Capitano del medesimo Re contro Luigi d’Angiò, ed era di Onorato figliuolo che oltre esser Conte di Fondi, possedeva nello Stato Pontificio e nel Regno molte Terre, e Castelli, ma per sua disgrazia, avendo il padre caldeggiato lo Scisma contro Urbano VI, tanto che diede ancora luogo ai Cardinali Scismatici di tenere in Fondi il Conclave, fu dal medesimo Urbano dichiarato Scismatico e ribelle di S. Chiesa, e dichiarato dicaduto dalla Contea di Fondi, e di qualsivoglia altro Stato che possedeva. Ma se Fondi, e questi Stati erano nel Regno, come ne poteva essere privato dal Papa?... Basta… Giacomello figlio di Giacomo ancora fu dichiarato complice nel reato dell’Avo, il che recò infinito dolore a D. Sveva sua Madrigna, tanto che, dove Giacomello abitava in Fondi, ella in Piedimonte si elesse l’ospizio, e si diede all’opere pie. [5] Ma vi fu peggio. Nel 1399 Bonifacio IX successore di Urbano fece e pubblico un gravissimo processo contro Onorato come principale autore e mantenitore dello Scisma, e lo condannò come reo di Apostasia, e di lesa Maestà, e sottoposelo alle pene promulgate contro i rubelli, e privollo di tutti i beni, e liberò, Dio sa come, tutti i vassalli dalla suggezione, e da qualunque sacramento, che gli avessero fatto; ed appresso bandì contro di lui la Crociata; e mandolli sopra contro Andrea Tomacelli suo fratello con l’esercito della Chiesa. Nella quale guerra Onorato fu sconfitto, e disperso, anzi nell’anno seguente 1400, si morì di malinconia, nello Scisma, senza aver voluto restituire le castella, occupate alla Romana Chiesa, onde ne restò condannata la memoria. Rainaldi: Ann. Eccl. 1399 A. 1400.

Ciononostante nel 1401 Papa Bonifacio ricevé nel suo Paterno Seno Giacomello, di lui nipote, benché inquisito ancora, come l’Avo, di lesa Maestà, con esserne divenuto pietoso, perdonan[6]doli liberamente Sermoneta e Bassano e Ninfa, castelli già confiscati alla Camera Papale; di che non si può dire, quanta allegrezza menasse D. Sveva, e quante grazie a Dio rendesse. E perché sin al 1380 si era data all’opere di pietà con chiamare in Piedimonte i Frati Predicatori, fabbricando loro il convento di S. Tommaso d’Aquino, risolse dar di mano ad un’altra opera di pietà, non meno grande, con promuovere la riforma della Disciplina del Clero secolare di Piedimonte che trovatasi assai decaduta. Se sono vere per metà, le cose che si riferiscono della indisciplinatezza del medesimo Clero nell’Istrumento del Laudo di Monsignor Angelo Sanfelice Vescovo di Alife, della data de’ 26 Febbraio 1417 stipulato per Notar Angelo di Pietro Gallo di Piedimonte, certamente la riforma era più che necessaria; e D. Sveva si immortalò nel promuoverla; ma prima di darne giuidizio sentiamone Istoria delle ragioni che lo fecero emanare, dei Decreti che vi fur pubblicati, e quali di essi ebbero effetto, e quali rimasero vuoti.

[7] Laudo del Vescovo Angelo Sanfelice[4].

Da Arcidiacono della Cattedrale di Alife era stato sollevato alla Mitra della Medesima Chiesa Angelo da Sanfelice, nobili genere come dice l’Ughelli fin da’ 13 Febbraio 1413, in tempo di PP. Giovanni XXIII. Per esser Egli dunque Vescovo Diocesano, e per la vicinanza, e per la nobiltà del suo Lignaggio, vedendosi egli spesso con D. Sveva, poterono accordarsi, a volere riformare l’Ecclesiastico ceto; che con la scostumatezza ne oscurava la gloria.

Avendo dunque fatto precedere un Capitolo di tutto il Clero di Piedimonte, radunato nella Chiesa di S. Maria, in data delli 15 di Febbraio 1417, con cui elessero loro Procuratore l’Abbate Giovanni di Ciccio di Giorgio del Castello [8] di Piedimonte, e mediante pubblico Parlamento fatti eleggere per Procuratori dell’Università, e uomini del castello medesimo Notar Pietro di Giacomo di Notar Pietro e Notar Angelo di Notar Giovanni, Onofrio Tomaso di Tora, Maestro Cicco Fisico e di Maestro Nicola ed il suddetto Abate Giovanni di Ciccio di Giorgio; nel suddetto giorno 25 Febbraio dell’anno medesimo che fu l’anno III del Regno della Regina Giovanna II, nel Castello di Piedimonte sopra Alife, nell’Ospizio della magnifica D. Sveva, o Sueva Sanseverino, Contessa di Fondi, in presenza di Lei, e del R.mo Padre in Cristo Angelo per la Grazia di Dio, Alifano Vescovo…

Lo stesso Vescovo asserì, che stante tra Preti beneficiati da una parte, e non beneficiati dall’altra del Corpo della Terra di Piedimonte, e dei Casali ultra aquas, ed il Popolo del Corpo di detto Castello di Piedimonte e dei casali ultra aquas dall’altra, era nata materia di altercazione e discordia, e dedotta al Consiglio del prefato Monsignor Vescovo, e della prefata D. Sueva Contessa di Fondi, e Padrona di detto Castello [9] e Casali di Esso; e che la detta discordia tra le stesse parti era per partorire risse, scandali ed errori; e perciò lo stesso Vescovo, e la medesima D. Sveva avevano decretato di togliere le discordie, e mettere in pace, e concordia le parti. Per la quale cosa per parte dell’Università di detto Quarto di Piedimonte, e suoi Casali ultra aquas comparvero gli anzi detti Procuratori, e per parte dei medesimi Preti l’enunciato lor Procuratore, ed esposero avanti il suddetto Prelato, e Signora, che i Preti beneficiati nella Chiesa di S. Maria, di S. Giovanni, di S. Angiolo, S. Potito, S. Pietro e S. Benedetto erano quasi tutti Concubinari e, commettevano molte enormi cose contro i detti Preti non beneficiati, e l’Università e Popolo di essa, dalle quali erano nate molte discordie, zizzania, errori, e nemicizie.

Punto qua. L’assertiva del Vescovo, che per timore dei disordini, insieme colla Dama stabilisce di togliere la materia, è ragionevole, ma la comparsa dei Procuratori della Università, e del Clero è sanguinosa, sfacciatamente incolpando i Preti beneficiati di tutte le Chiese Battesimali di Piedimonte, che fossero tutti Concubinari, e chi erano ques[10]ti Preti beneficiati, se non che i Rettori di dette Chiese?... e chi erano questi Rettori, se non i Parroci, e Curati, e Pastori delle anime? e si permetteva quattro Secolari, ed un Abate di infamare così in pubblico coloro, dai quali ricevevano i Santi Sacramenti?... e si ascoltavano senza orrore, particolarmente quell’Abate Giovanni di Ciccio di Giorgio, Procuratore anche del Clero, che si uniformava a tale istanza, contro il medesimo Clero?... o traditore scellerato! Dunque il Clero ti ha eletto non per Procuratore ma per accusatore…!! ed ecco la prima sostanziale Nullità di questo Istrumento, Nullità fondamentale, perché l’eletto per fare le loro parti si unì colli loro Avversari, ed accettò senza menoma protestazione, Decreti così lesivi alla stima che vale più della vita.

Ma vediamo queste cose sì enormi.

        I.      La prima, che i Preti beneficiati non permettevano, che i Preti non beneficiati assistessero all’officio nella Chiesa con essi.

     II.      La seconda, che nelle Loro Chiese non gli permettevano celebrare la Messa ma alcune volte il Prete vestito a Messa [11] era da alcuni di detti Preti beneficiati con grandissima ingiuria spogliato innanzi il Popolo, che stava nella Chiesa.

   III.      La terza, che a detti Preti non beneficiati i medesimi beneficiati, in dette Loro Chiese non davano alcuna porzione di quelle Limosine che i Devoti facevano per le anime dei Defunti nella Chiesa, dove essi stavano e ‘I vedevano.

Consideratasi la qualità di questi Preti non beneficiati, niuno si meravigliò di queste cose, che Loro accadevano. Erano essi Preti ordinati senza Beneficio, e senza Patrimonio, che allora appena cominciava ad introdursi. Come erano scarsi di averi, così privi di dottrina, e di merito. Vivevano la Limosina della Messa, che allora non era più di Due grani e mezzo, onde invidiavano le Limosine, che i Parrocchiani portavano ai Loro Curati, perché pei Loro morti applicassero Messe, ed Uffici, ed avrebbero voluto, che i Curati gliene dassero parte, ammettendosi insieme con essi alla recita dell’Officio de’ Morti e lasciandoli dir Messa prima di Loro. Ma chi è questo santo Prete, o Frate, che faccia parte ad altrui delle limo[12]sine, che sono a lui fatte, e nella propria Chiesa?... in quanto poi a fare spogliare un Prete vestito a Messa, se questa non è una caricatura, dirò che sia pervenuto dalla temerità del Prete andato a celebrare nella Parrocchia senza licenza, e prima del Parroco. Seguitiamo le accuse.

  IV.      La quarta, che questi Preti beneficiati rare volte celebravano Messa, né recitavano l’Officio; ma più tosto attendevano in tutte le ore ai giuochi, a taverne, ed altre opere illecite, e che perciò i detti Preti non beneficiati erano forzati ad attendere ad opere illecite, e mercanzie ancor essi.

Da quest’accusa non solo si conosce il livore contro i Preti beneficiati, ma la connivenza verso i non beneficiati Preti, perché si esagera il delitto dei primi, si scusa quello dei secondi, quelli si incolpano di giocatori, di tavernieri, questi si compatiscono, commettendo non si sa quali mancanze, e mercatandando, quasi per fuggire l’ozio, e procurarsi da vivere… E questo è giudizio disappassionato?... Passiamo oltre, che vi è di peggio.

  IV.      [13] La quinta, che dessi Preti beneficiati facevano morire i loro Parrocchiani senza confessione, e senza ministrare loro gli Ecclesiastici Sacramenti… e se alcuno moriva senza di essi, era riscattato con grande somma di denaro, e sino a che non si dava a detti Preti ciò che domandavano da quei della Famiglia del Morto non lo volevano seppellire, ed intanto facevano stare i defunti sopra la terra sino a che il cadavere dasse fetore, e con ciò inducevano la gente a seppellire i morti di nascosto di notte, e senza officio.

     V.      La prima parte di quest’accusa è impossibile a credersi, che avvenisse volontariamente, involontariamente può essere che il Parroco non arrivi a tempo a fare il suo officio come se l’infermo sia sorpreso da apoplessia, o altro subitaneo accidente. Ma la seconda parte è troppo nera, e la iniqua pretenzione dei Preti di allora, era caldeggiata da’ Vescovi, che volevano fare il testamento del morto ad caussas pias, e disponere pro male ablatis, e non si faceva a loro modo, negavano l’ecclesiastica sepoltura ai defunti. Questo errore passò in massima in tutte le Chiese, e sino a tempi miei in Napoli, per potersi seppellire un defunto di morte improvvisa, bisognava, che i congiunti pagassero quanto gli veniva cercato. Si distinse in commettere quest’… Monsignor giambatti[14]sta Santorio, nostro Prelato, ed essendosene ricorso al Pontefice S. Pio V pur rispose, che quando il morto aveva parenti, toccava a questi testare per l’anima di Lui, ma quando no, toccava al prelato. Or se così determinava un Santo, che volevan fare i ribaldi?... Chi è quello, che può morire senza lasciare eredi?... Dove manchino i congiunti, entra il Fisco. E questo non può disporre ad pias caussas per lo defunto, che l’ha da far il Prete, od il Vescovo?...

  VI.      La sesta, che quando mancava qualche beneficio, non si impetrava senza pubbliche Simonie, e vi correva molta spesa. Questa accusa sembra, che ferisca più i Vescovi che vendevano, i benefici, che i Preti beneficiati di Piedimonte; così può giudicare, chi non sa, che allora detti Preti avevano essi il diritto di provvedere i benefici vacanti; tanto vero che anche dopoché S. Maria Maggiore passò ad essere Collegiata, ogni volta che vacava un Canonicato, questo si provvedeva dagli altri Canonici, come ne abbiamo più istrumenti da riferirsi a suo luogo, ed i Vescovi Diocesani rispettarono questo lor privilegio sino ai tempi dello Spagnolo Giacomo Gilberto di Nogueras, contro del quale, mentre assi[15]steva al Concilio di Trento, ricorsero essi Canonici a PP. Pio IV, ed ottennero Monitorio per essere mantenuti in detto possesso; ma terminato il Concilio, si trovò, che in esso si era decretato che si osservassero le Regole della Apostolica Cancelleria, e restarono burlati.

Non voglio però scusare i Preti di Piedimonte se non che con deplorare, che in quei miseri tempi il concubinato degli Ecclesiastici e la Simonia erano fatti per ogni Provvista usuali. Ecco quello, che dice di tutto il Clero d’Italia il B. Andrea Abbate Strumense; Quis Clericorum propriis, et paternis rebus solummodo credebat?... quin potius perarus inveniretur, proh dolor!... qui non esset uxoratus, vel concubinarius?... De Simonia quid dicam?... In vita S. Ioanni Gualberti.

VII.      La settima, che tali Preti tra di loro rissando, battevasi scambievolmente, alcune volte con effusione di sangue, e senza impetrare dispensa poi celebravano la Messa. Credo, che dir volessero questi accusatori ignoranti, che tali Preti, dopo essersi battuti, senza impetrare l’Assoluzione dalla Censura per la violazione del Canone: si quis… essendo incorsi nella irregolarità, seguitavano non di [16] meno a celebrare la Messa. Ma questa accusa ha troppo dell’inverosimile. Possibile, che Beneficiati, che avevano fatto vedere, che erano Parrochi, ordinariamente commettessero tali eccessi?... Sarà cosa forse una sol volta avvenuta o forse avranno questi rissosi mandato prestamente al Vescovo un memoriale, ed esponendo, che la percussione fosse stata segreta, e leggiera, avessero, da Lui ottenuto facoltà di farsi assolvere. Il che non saputo dai secolari accusatori avessero giudicato temerariamente essere avvenuta la cosa come essi se l’avevano ideata. E mi meraviglio di Monsignor RR.mo come ammessa così tale accusa, senza dir prima, chi sono costoro?... Si piglia informazione si citino, si costituiscano, si puniscano. E via baje.

Concludesi questa assertiva, che perciò, tutto il Popolo di essa Terra stava molto mal disposta, che se non fusse stato per riverenza di Dio, e per timore dei signori temporali, contro di loro detto Popolo si sarebbe scagliato, non volendo più il medesimo e la Università, ed i Preti non benefi[17]ciati, sostenere dai Preti beneficiati tali affronti, e danni, ed ingiurie. Tanto più che avendoli fatto spesse volte ammonire dal lor Diocesano, ed uomini dabbene di detta Università, a ciò si fossero astenuti da simili cose ed emendarsi; da giorno in giorno andavano da male in peggio. Per la quale cosa i Procuratori accennati avevano avuto ricorso agli anzidetti signori e che avevano humilmente supplicato esso Signor Vescovo, e Signora D. Sveva, acciò si fossero degnati applicare salutevoli rimedi a tanti sconcerti. E che essi come buoni padri di famiglia che amano la pace fra di loro sudditi, e la concordia, e l’unione degli animi, perché si sedassero in avvenire tali discordie, avevano ordinato che si facesse Compromesso in mano di essi Signor Vescovo dai detti Procuratori, così in nome, e parte di loro, e loro eredi, come in nome, e parte dei predetti Preti, non meno, che del detto Popolo, ed Università, e de’ loro eredi del detto Corpo o sia Quarto di Piedimonte, e suoi Casali ultra aquas. I quali Procuratori in fatti, di loro spontanea volontà avevano promesso in mano del detto Signor Vescovo stare, ed ubbidire ad ogni dichiarazione, sentenza, ordine, e capitolazione, così sopra [18] il destino della Chiesa, e dei benefici predetti, quanto sopra la vita, ed onestà de’ Chierici, e modo di vivere con i Parrocchiani delle Chiese e dei Parrocchiani con loro, e con i Preti non beneficiati, e beneficiati con essi; obbligando sé, gli eredi, e loro beni, ed i beni degli uomini dell’Università predette, sotto pena di Cento Once di Oro da pagarsi da qualunque Università a quella Curia, dove si sarà fatto richiamo delle cose infrascritte, se si sarà contravvenuto alla sua dichiarazione, ed ordine, come apparisce in pubblico Istromento, stipulato dallo stesso Notar Angelo Di Pietro Gallo, vallato, e roborato con le rinuncie, promesse, obbligazioni, e giuramenti necessari, ed opportuni, e con ogni solennità, ed alla presenza di esse D. Sueva, accettate tutte le cose sopra scritte, ed infrascritte, e senza contradire.

Noto tre cose in questa conclusione.

        I.      La dichiarazione del Popolo e dei Preti non beneficiati di essersi per poco astenuti di mettere le mani addosso ai loro Parrochi, che alla fin fine non avevano trovato a saccheggiarli le case di notte, né ad insidiarli l’onore.

     II.      [19] Il compromesso fatto ad esse parti in mano del Vescovo con Istrumento precedente, ma in presenza della Padrona della Terra, che in tanto si vede che non contradisse, accettò il tutto, in quanto Essa ne era l’Autrice, e forzava, con timore reverenziale, le parti a consentire a quello, che dessa voleva, che si facesse: non badando, che questa era una Nullità dell’Istrumento.

   III.      Che tale compromesso si aggira non solo sopra la vita, ed onestà dei Clerici, e modo di vivere fra di loro, quanto sopra il destino delle Chiese, e de’ Benefici con le brighe dei beneficiati, e non beneficiati, e del Popolo. Che mancanze avevano commesso le Chiese, ed i benefici; perché quelle fussero soppresse, questi usciti senza l’assenso apostolico, e senza causa cognita?... Come si poteva mutare lo Stato di Chiese Parrocchiali, e beneficiali, in farle divenire collettizie?... Che impertinenza fu quella del Popolo ed Università, e preti non partecipanti di farne richiesta?... Che crassa ignoranza fu quella del Prelato a mettere [20] mano ad una cosa, che appena si concede al Sommo Pontefice in sentenza dei Canonisti più franchi, e sempre vi si richiede del beneplacito?... E questa sola nullità basta a mandare tutto questo Laudo in aria, come le palle di sapone. Ma con tutto ciò esaminiamone una per una tutte le determinazioni in altre per ammirarne la dabbenaggine, in altre la ignoranza, in altre la ridicoleria.

[21] La prima sentenza ed ordinamento dunque del Laudo di detto Monsignor Angelo Pro Tribunale sedente, vi è che i Preti che allora tenevano benefici nella Chiesa di S. Maria, di S. Giovanni, di S. Angiolo, di S. Benedetto, di S. Pietro, e di S. Potito del detto Corpo di Piedimonte e suoi Casali, seguitassero a tenere gli stessi benefici, solamente durante la loro vita; ma dopo la morte di alcuno di detti Preti beneficiati in alcuna o alcune di esse Chiese, quel beneficio, o benefici, che vacassero per morte, o rinuncia o qualsivoglia altro modo, fossero comuni a tutti i Preti così presenti, che futuri di detto Quarto di Piedimonte e suoi Casali ultra aquas, e tutti i frutti, rendite e proventi che perveniranno da quel beneficio, o benefici, essi Preti se li dividessero comunemente fra di loro e dovessero tener comune quella parte di stabili, che tenne e possedé il Prete che morì. E il detto beneficio o benefici, che vacaranno dopo la morte di alcuno beneficiato, i detti Preti subito potessero acquistarlo di loro autorità, così nel [22] dominio, e come nella proprietà. Riservano però all’istesso Vescovo, la quarta dei diritti, dei quali, e nelli quali fu solito darsi a Lui ed agl’altri suoi Predecessori, e non altro. Riservato ancora, che se alcuno così laico come Prete, godesse del privilegio della Chiesa della Annunciata della Vallata, e di S. Croce del Castello del Quarto Superiore, che l’istesso, che gode degli stessi privilegi, venghi escluso da questo privilegio e gli altri in esso contenuti; e se alcuno viene racchiuso a godere dei privilegi delle dette Chiese della Annunziata di Vallata e di S. Croce del Castello, e particolarmente nessuno possa godere di tutti, né di due, ma di uno solamente. Iperciocché tutti i maschi e femmine habitanti dal ponte di Toranello in su e dal muro rotto in giù, e nelli Casali ultra aquas, vadino alle stesse Chiese di S. Maria e di S. Giovanni ed ivi ricevano i Sagramenti, ed alle dette Chiese [23] corrispondano i diritti Parrocchiali dei quali sono tenuti.

In questo I. Primo regolamento si vedono ridotti i benefici in massa comune, benché dopo la morte dei beneficiati, e non prima; si vedono soppresse quattro Chiese Curate gratis, senza causa legittima, anzi contro ragione, perché si trovano gli Operari delle messe di G. Cristo quanto che egli avrà comandato: rogate Dominum messis, ut mittat operarios in messem suam. Messis quidem multa est, operari autem pauci. Ma perché mai?... per satollare certi preti non addetti alle chiese, che sempre si suppongono la maggior parte del clero. Ma è notabile la dabbenaggine di Monsignore che con la riserva della quarta dei diritti soliti darsi al Vescovo, credé non pregiudicare la Sua mensa nel cambiamento che ordinò ma restò quella più che pregiudicata, non esigendo da allora più quarta alcuna su de’ benefici suddetti.

Ben gli sta!... le nomine sono sempre perniciose a tutti. Si passa quindi in detto orfinamento dai benefici Ecclesiastici, che sono un diritto, che si da ai Chierichi di percepire i frutti dai poderi [24] della Chiesa a parlarsi de’ privilegi, e delle unioni delle Parrocchie, e si vuole, che questo privilegio, accordato a tutti i Parrocchiani maschi e femmine nelle quattro chiese soppresse, di potere convenire in S. Maria e S. Giovanni, ed a queste Chiese corrispondere i diritti parrocchiali, e riceversi i Sacramenti non possa competere agli abitanti della Vallata, di là dal Ponte di Toranello né agli abitanti del Castello Superiore da sopra del muro rotto. E della stessa maniera, gli abitanti tra il detto Ponte, e il detto Muro rotto non possono godere del privilegio della Annunciata, né di quello di S. Croce.

Con queste parole volendo Monsignor Angelo far non altro, che unire in S. Maria e in S. Giovanni i Parrocchiani delle quattro Chiese soppresse, e non altri gettò i semi della orrida divisione, che da allora per più Secoli è durata e dura, e durerà tra il Corpo di Piedimonte, il quarto della Vallata, e quello del Castello Superiore.

[25] Dio glielo perdoni. Era meglio lasciare tali Privilegi promiscui, come gli lasciò promiscovi tra S. Maria e S. Giovanni, tra le quali Chiese non pose confini di giurisdizione, e perciò non vi è stata mai alcuna discordia, perché avendoli posti, tra la Vallata e Piedimonte, e tra Piedimonte e ‘l Castello, oh di quante brighe, rancori, dispendi, e peccati è stato cagione...!

 

Regolamento II - Il secondo regolamento fatto da detto Monsignor Angelo, si fu, che la Chiesa in cui era il Beneficio, fosse servita in comune da tutti i Preti così presenti come futuri per Ebdomada, riservata però al Prete primo beneficiato nella Chiesa la potestà di ascoltare le Confessioni dei Parrocchiani, e loro conferire i Sacramenti della Chiesa.

Perché avendo tolto i Rettori delle Chiese restavano esse senza chi le servisse, pensò il Ve[26]scovo ordinare che fossero servite da tutti, ma perché tutti tutte non le potevano servire, non potendosi moltiplicare in più luoghi, ordinò che si dividessero per Ebdomadi, come infatti si osservò nella Chiesa di S. Potito, dalla quale essendosi tolto il Rettore, supplivano per Ebdomada i Preti di S. Maria ad amministrarvi i Sacramenti, anche dopo che i detti Preti furono fatti Canonici, come da documenti che si porteranno a suo luogo, e così in quel principio osservare si dovette nelle Chiese di S. Angiolo e di S. Pietro, fino a che le medesime andarono in ruina, e furono profanate. E così accadde ancora alla Chiesa di S. Giovanni, e di S. Benedetto, delle quali essendo morti i Rettori, cominciarono ad esser servite da Preti di S. Maria per Ebdomada. Senonché essendosi moltiplicate, le Chiese intorno a quella di S. Benedetto, nelle quali si celebravano Messe abbastanza, fu trascurato il servizio di lei da quel Prete a cui [27] spettava per Ebdomada celebrare la santa Messa. Ma non così poté trascurarsi quello di S. Giovanni, dove sin oggi si porta l’Ebdomada dai signori Canonici di S. Maria, e la Messa non manca, precisamente nelle Feste, e gli altri servizi descritti negli antecedenti Capitoli.

E perché viene riserbata la potestà di ascoltare le confessioni dei Parrocchiani, e loro conferire i Sacramenti della Chiesa, al Prete primo beneficiato nella Chiesa, si vede che questo ne doveva essere il Rettore, ed il Parroco ancora sopravivente, ed esser poteva ben anche l’Arciprete come Rettore di S. Maria.

 

Regolamento III - Il terzo Regolamento si è che dopo che alcuna delle Chiese predette fosse vedovata di tutti i Preti o Cappellani che tenevano la Chiesa medesima, prima di tale ordinamento, vi si stabilissero due o tre Patini, o sian Preti dei più onesti e di mi[28]glior fama, e vita, ed accetti ai Parrocchiani, e dare loro i Sacramenti della Chiesa. E questa Ordinazione osservarsi debba in perpetuo, in qualsivoglia Chiesa dopo la morte di tutti i Cappellani, che al presente erano in tutte le Chiese mantenute. Ed abbiano detti Patini facoltà di esigere tutti i frutti della medesima Chiesa, e così ancora i renditi, i proventi, e le oblazioni; e di concedere le terre, le case, e le possessioni della stessa Chiesa, a staglio, o a parte, od a pensione, come a lui meglio sembrerà; ed essi debbano distribuire i frutti, e le rendite, a ciascuno la sua parte. Nessuno però presuma stendere la sua mano, e ricevere cosa alcuna dei detti frutti, senza licenza delli detti Patini o Procuratori. E chi sarà contro questo Capitolo, pachi alla Curia del Signor Vescovo tarì due per ciascuna volta. Ecco l’origine dei nostri Curati, che si eligono in ciascuno anno dal Capitolo. [29] La loro facoltà è non solo spirituale, ma ancora temporale; e perciò si chiamano Procuratori e Curati. Tolti i Rettori ai quali apparteneva in perpetuo la cura delle anime, bisognò che questa si appoggiasse ai Patini, da eligersi in ciascuno anno, ma ciò non prima del 1601, come ivi dirassi.

E non si può dare sciocchezza maggiore, togliere i Parrochi perpetui, per sostituirvi gli annuali?... Quando che i buoni Prelati si adoprano a tutta possa, di togliere dalle Parrocchie dove sia tale abuso, gli annuali per fissarvi i perpetui? Questi Patini che dovevano farsi in ciascuna delle sei Chiese Rettorali, si ridussero poi solo a farsi in S. Maria Maggiore, la cui Parrocchia essendo troppo ampia, e dovendosi anche da essi attendere alla esazione delle rendite, bisognò che venissero in apresso sgravati da questa, e si facesse un Esattore a parte, o sia Procuratori ad esigere, restando i Curati soltanto Procuratori ad lites.

 

[30] Ordinamento IV - Il quarto ordinamento si fu che nella chiesa di S. Maria del Quarto di Piedimonte, da allora in poi si osservasse quest’ordine, che tutti i Preti di detto Quarto, e dei Casali si congregassero in essa, in tutti i primi e secondi vesperi, e nelle messe delle Festività della B. V. Maria, i quali Preti dovessero cantare solennemente i detti Vesperi con le Messe, ed anche in ogni Lunedì cantarsi l’Officio per li Defunti nella stessa Chiesa, non abbandonate l’altre Chiese, nelle quali è solito dir la Messa in quelli giorni; ma si distribuiscano i Preti a celebrar la Messa in ciascuna Chiesa, e tutti gli altri restino nella chiesa di S. Maria a cantar la Messa principalmente, ed i Vespri, ed in tutti i Venerdi nella Quaresima, portino le Litanie, se piacerà a’ Cappellani che ora vi sono, e se non piacerà, quest’ordine si osservi dopo la loro morte. Chi non interverrà, e non allegherà giusta causa della sua assenza paghi [31] al Signor Vescovo grana dieci.

Bastantemente si è parlato di questo Ordine di sopra, ed ora non vi è altro da aggiungere, se non che il portarsi le Litanie in tutti i Venerdì di Quaresima, non fu in uso in vita dei Cappellani di allora, e dopo lor morte neppur s’introdusse.

 

Ordinamento V - Il quinto Ordinamento si è che detti Preti, tanto presenti, che futuri, dovessero stabilire due Procuratori de’ più probi in ogni anno, i quali comparissero per tutti in tutti i negozi toccanti tutti Preti, così per ragione del beneficio, che dell’onore, e dell’ordine. E tutto quello che sarà fatto, e ordinato da essi, si abbia per rato da tutti, sotto pena di tarì due da applicarsi al Signor Vescovo, ed alla Cura di lui.

Questi Procuratori erano quelli che ora chiamiamo ad lites, distinti dalli Procuratori ad esigere, che erano i Patini, che poi si confusero; ed i Preti, eligendo i Curati, venivano ad eligere i Procuratori ad esigere, ed alle liti, che poi, come si è detto, tornarono a dividersi, rutando la procura ad lites unita colla cura, e la procura ad esigere del tutto separata.

 

[32] Ordinamento VI - Il sesto ordinamento si è che nessuno Prete futuro possa entrare in detto Ordine, e godere del beneficio, del quale godono gli altri, se pria non sia di età di anni 25, e sappia ben cantare, e leggere; sia approvato da quattro huomini dabbene, e dalli Procuratori, (che) allora si troveranno esservi, ed esso approvato con ritrovarsi in detta età, e sufficienza, come si è detto prenda assieme cogl’altri la parte ne’ benefici, e nei frutti, e comunichi cogli altri negli Introiti, negli Esiti, ed esservi tutto ciò che dagli altri Preti si osserva prima che entri in possesso.

Noto sopra ciò molte cose. La prima, che sei Preti futuri del beneficio; se prima erano di anni 25; dunque è stato un abuso, che alcuni siano stati Canonici di S. Maria essendo semplici Chierici, ne doveva suffragarli, che detta Chiesa non era Cattedrale, perché gli ostava la legge particolare di essa, che gli voleva maggiori di anni venticinque.

La seconda cosa che noto si è che tutta la sufficienza che si richiedeva allora in un promuovendo al Sacerdozio, era che sapesse ben cantare e leggere. Qual meraviglia che i Sacerdoti di quel tempo, non sapessero briciola di Latino e di Scienze?...

[33] Noto per terzo che gli Esaminatori posti da’ Vescovi, bastava che fossero persone dabbene, ma la Scienza è pur necessaria, Dio mio!...

La quarta cosa che noto è la facoltà che si concede ai Procuratori ad lites, eletti dal Clero, di approvare i Promuovendi, e questo era lo stesso che non ordinare senza il consenso del Clero, e comunicare a detti Procuratori la facoltà di Vicari.

 

Ordinamento VII - Il settimo ordinamento si è che detti Procuratori siano tenuti, e debbano presentarsi davanti il Vescovo, allorché egli verrà a questo Castello di Piedimonte, e giurare che osservano i diritti del Signor Vescovo, li rilevano realmente, e li assegnino al detto Signor Vescovo, o ad altri in suo luogo. E che detto Signor Vescovo non possa far altro Procuratore per parte sua a proporre i suoi diritti in dette Chiese, ed in detti Preti, se non che uno di quelli che saranno eletti da Preti anzidetti.

Questo ordinamento restò privo di effetto da che i Vescovi di Alife cominciarono a risiedere in Piedimonte; precisamente da che il di lui Pubblico comperò da Flaminia Gambella una di lei casa nella [34] Piazza di S. Domenico, e la donò al Vescovo Fra Valerio Seta, perché vi abitasse con li di lui successori, quali a poco a poco la ridussero a palazzo vescovile.

 

Ordinamento VIII - L’ottavo ordinamento si è che nessuno Prete pubblicamente concubinario abbia ardire di cantar Messa in alcuna delle Chiese suddette, cioè nelle Feste solenni, e nelle Domeniche, come anche nel giorno del Natale del Signore, nella Pasca di Resurrezione, nel giorno dell’Ascensione, nella Festa del Corpo di Cristo, nella Pentecoste, nella festa del Santo Salvatore, nelle feste della B. V. Maria, nella Festa della Purificazione, nelle feste che si solennizzano nella Terra, nei Casali, o nelle Feste nelle quali si fanno le Ottave. Chi però canterà la Messa nelle suddette Feste proibite, paghi alla Curia del Signor Vescovo tarì sei. E sia privato dei frutti della sua parte per un anno del beneficio, qual beneficio sia degli altri Preti.

Si è deplorata di sopra la corruttela di quei miseri tempi, nei quali era così comune il concubina[35]to degli Ecclesiastici. Ma ora bisogna riderci dello spediente, trovato da Monsignor Angelo per mettere argine a sì grave disordine. Oh caro!... Dunque bastava che un pubblico concubinario si astenesse da cantar Messa in detti giorni solenni, e poi senza togliere l’occasione prossima celebrasse liberamente in tutti gli altri giorni il santo Sacrificio?... Evviva Monsignor Sanfelice... Questo Decreto non l’avrebbe fatto Arlecchino, fatto Principe in commedia.

 

Ordinamento IX - Il nono ordinamento si è che l’Ebdomadario cantasse la Messa, ed i Vespri nei giorni festivi nella Chiesa, dove è cappellano e, quando egli non posa o non è presente, dicala un dei Procuratori per parte di lui, e tutti gli altri siano vestiti di cotte. E chi non interverrà, e non allegherà giusta causa della sua mancanza, sia tenuto a pagare di pena dieci grana al Signor Vescovo.

[36] Che l’Ebdomadario canti la Messa, e intuoni i Vespri, è ben fatto, altrimenti vi sarebbero mille sconcerti. Che gli altri assistano in Divinis cogli abiti di lino, fa bel vedere; ma non fu usato nella Chiesa da principio; e fu solamente introdotto nei secoli più moderni, per imitare gli Ebrei, onde non merita la pena che gli si fa soffrire, questa mancanza frivola.

 

Ordinamento X - Il decimo ordinamento si è, che quando si suona la campana a Processione e a Litanie dicevano allora, tutti i Preti si radunino nella Chiesa di S. Maria, e vadano vestiti di Cotte, e chi non interverrà in Cotta, paghi dieci grana alla Curia del Signor Vescovo.

Si doveva dire, che si avesse per assente, e dovesse soggiacere alla pena dell’assenza; la quale pena appropriarsela il Vescovo, quando ella altro esser non può che la privazione della distribuzione che si ha per detta Processione?... Tanto vero, che non essendovi distribuzione, impunemente vi si potrebbe mancare, eccetto che alle Processioni generali del Corpo di Cristo, di S. Marco, e delle Rogazioni, che sono de jure.

 

[37] Ordinamento XI - L’undicesimo ordinamento si è, che se alcun Prete percuotesse l’altro con effusione di sangue, sia privato della parte sua che abbia nelle Chiese, o nella Chiesa per anni cinque, di tutti i frutti. Ma chi senza effusione di sangue, avrà percosso o battuto un dei Preti suddetti, sia privato per anni due di tutti i frutti a lui spettanti. Per quelli anni due, i quali frutti siano degli altri, e resti soggetto ad ogni altra Pena imposta da’ sagri Canoni, e per pena al Signor Vescovo tarì cinque per ogni volta, se sarà accusato, e convinto.

Non sapeva Monsignor Angelo la massima legale, che Nemo duplici poena punitur, però non gliene bastarono due, ed aggiunge la terza, a suo pro col toties quoties. Che vescovo!... Che Curia!... Le pene debitamente esatte, devono cadere in pro de’ poveri, e Luoghi pii.

 

[38] Ordinamento XII - Il dodicesimo ordinamento si è, che se alcun Prete giuocasse pubblicamente ai Dadi, o bestemmierà Dio e la Vergine Maria, cada ogni volta nella pena di Tarì due, da pagarsi al Signor Vescovo, se sarà accusato e convinto, e per un mese resti sospeso dal consorzio degli altri Preti, nell’Officio, e nella Messa, e adempisca, quella penitenza che gli verrà impartita dai Procuratori.

Osservazione. Questo accade quando certi sciocchi vogliono fare i Legislatori, che dànno più scandalo, con far vedere che certe sceleraggino sono possibili, che buon esempio con castigarle. Dimadato Licurgo perché non aveva imposto pena al Parricidio, rispose perché non l’ho supposto possibile. Non doveva Monsignor Angelo suppor possibile il giuoco de’ Dadi, e la bestemia in un Prete. Ed accadendo per malam hypotesim lasciare in libertà ai suo’ successori servirsi delle Censure, delle Deposizioni, degli Ergastoli, e fino delle Galere, intanto io hogli registrato Monsignor Angelo tra quei [39] Prelati cattivi che credono ai Delatori ogni impostura che gli riferiscono. Ma come... doveva egli dire, è verosimile che Parrochi e Confessori siano giuocatori di Dadi, e bestemmiatori di più?... Andate via, lingue fracide, e sacrileghe, ed imparatemi a rispettare la dignità dei Sacerdoti di Dio, o al più risolversi col Capiatur informatio.

 

Ordinamento XIII - Il tredicesimo ordinamento si è che se qualche Prete sarà pubblicamente mercante, ed ammonito dai Procuratori due volte non si sarà emendato, si privi di tutti i frutti che gli spettano, e parte la dividano fra loro comunemente gli altri Preti.

Osservazione. La negoziazone nei Preti è illecita perché è proibita, perché in sé stessa è opera indifferente, ed è proibita ai Preti perché gli distrae dal servire Dio, il quale è la parte della di loro eredità. Anche perché gli fa troppo attaccati alla Terra, perché gli rende avari e crudeli, perché avidi dell’altrui, e senza misericordia, perciò giustamente si puniscono in questo Capitolo con [40] la privazione delle rendite temporali, quelli che, per il guadagno temporale, il profitto spirituale trascurano.

 

Ordinamento XIV - Il quattordicesimo ordinamento si è che se alcuno di detti Preti avrà parole ingiuriose con gli altri Preti, debba stare alla correzione, e pena che se gli imporrà da detti Procuratori. Quelli però che non osserveranno ciò che gli sarà imposto da loro, siano ancor privati per un anno dei Frutti che tra di loro, in comune se li dividano i Preti.

Dal disposto in questo ordinamento, detta correzione da farsi, e pena da imporsi ai Preti linguacciuti dai Procuratori del Clero, si vede che i medesimi Procuratori ne avevano comunicata la giurisdizione dal Vescovo, come si vede in altri Luoghi di questo Laudo; ed apparisce ancora che i Vescovi di Alife non tenevano Vicario in Piedimonte, e si servivano di detti Procuratori in vece di essi.

 

Ordinamento XV - Il quindicesimo ordinamento si è, che nessuno di detti Preti possa criminalmente accusare alcun altro Prete, o Secolare senza la volontà di detti Procuratori. E chi fa[41]rà il contrario, la sua denunzia sia nulla, e non tenga [---] ed egli sia privato dei suoi frutti per un anno, quali frutti siano degli altri Preti.

Osservazione. Anche da questo Capo, si vede, che detti Procuratori avevano comunicata la giurisdizione di vicari.

 

Ordinamento XVI - Il sedicesimo ordinamento si è che nessun Prete ardire di pranzare, o di cenare nella taverna, e se contrafacesse, accusato e convinto, debba pagare dieci grana di pena al Vescovo.

Osservazione. Che delitti ridicoli..., che pene ridicole son queste?... Quando non vi è scandalo può andare alla taverna Monsignore medesimo. E quando un Cinciglione ci andasse per fare la birba, pagherà volentieri un carlino di pena. Che inezie?...

 

Ordinamento XVII - Il diciassettesimo ordinamento si è, che se alcun Prete de’ presenti, e futuri non accetterò né farà ciò che gli sarà comandato, da detti Procuratori che saranno pro tempore [42] tanto sopra il disposto in dette Chiese, quanto sulle altre cose contenute nei presenti Capitoli, paghi al Signor Vescovo cinque tarì, e sia privato dei frutti della sua parte per due anni, quali frutti siano comuni degli altri Preti.

Osservazione. Insomma i Procuratori del Clero si fanno Esecutori del Laudo, ed i Preti con ubbidienza cieca, si obbligano mandarli in esecuzione, e se no si contentano di essere multati a rigore. Ma vedremo in appresso che questi Procuratori, fatti tiranni del Clero, che gli eligeva, pur non poterono fare che le Chiese di Piedimonte, da beneficiali diventassero collettizie, e che coi Preti Partecipanti vi avessero parte i non partecipanti.

 

Ordinamento XVIII - Il diciottesimo ordinamento si è, che se alcun Prete pervenisse a tanta povertà, infermità o vecchiezza, che più non possa servire alle Chiese, alle quali è tenuto; che quelle siano servite dagli altri Cappellani, e Preti, in cambio di esso e riceva la sua parte, come gli altri che servono, e siano tenuti comunemente tutti i Preti dargli per limosina, per Dio annualmente tomoli sei di grano.

Osservazione. Che Monsignore non avesse posto in massa comu[43]ne i frutti de’ beneficii, non vi sarìa stato mestieri di quest’ordinamento, perché ogni Prete sarìa vissuto col suo beneficio; e quelli, che non avean beneficii, non si sarebbero ordinati; ed avrian preso altro mestiere, perché allora cominciaro a introdursi il titolo del sagro Patrimonio. Si vede che i Vescovi per aver voluto ordinare Preti soverchi, sono stati cagione di tante peripezie.

 

Ordinamento XIX - Il diciannovesimo ordinamento si è, che tutti i Procuratori siano tenuti e debbano nella fine della sua procura, mettere il conto di ciò che hanno percepito, e liberato in tutto il tempo del loro officio agli altri nuovi Procuratori. E se fosse restata di comune presso di loro, la restituiscano, ed assegnino fra il termine di giorni otto, agli altri Procuratori. Se contravverranno, di modo che fra detto tempo non mettessero il conto, e quello, che sia restato in lor potere, non assegnassero agli altri Procuratori, siano tenuti alla pena di..., da pagarsi per metà a detto Vescovo, e per la restante metà a tutti i Preti. E se troverassi che i detti Procuratori avessero defraudato i Compagni, o siano i Preti, o vero che non si siano portati con lealtà, in procurare i negozi da parte dei detti Preti, per ognuno mancante ne paghino dieci, la me[44]tà dei quali sia del Signor Vescovo, e l’altra metà dei detti preti.

Osservazione. È de jure, che ognuno che amministra l’altrui, ne dia conto al diretto Padrone, o ad altro suo Procuratore, quando egli se ne contenti. Perciò in S. Maria, secondo l’antico costume, si portavano i conti dal Procuratore passato la Vigilia dell’Epifania, e si vedevano dal Procuratore nuovo in pubblico, e vi assisteva chiunque dei Canonici volesse assistervi. Per questo tanto i Sagri Canoni, quanto le Leggi municipali han proibito di non confermarsi i Procuratori, ed Amministratori dei Luoghi pii, se non dopo aver dato i conti ed avutane la liberatoria. Ma, Dio mio!... che pro, che leggi si facciano, quando non si osservano?...

 

Ordinamento XX - Il ventesimo ordinamento si è, che se alcuno sarà eletto per Procuratore da Preti, e non vorrà accettare, si privi per due anni di tutti i frutti a lui competenti per ragione del di lui beneficio.

Osservazione. Questa legge è ingiusta, perché non ammette la scusa giusta, che l’eletto potrebbe portare, di età avanzata, di infermità, di assenza... E se è cosa giusta che il peso [45] si porti da tutti, perché non si obbligano tutti i Preti di grado in grado a far la Procura, come si fa in tutte le altre Chiese dell’Alifana Diocesi, e riesce molto meglio?...

 

Ordinamento XXI - Il ventunesimo ordinamento si è, che non si possa esigere da Procuratori, o altri Preti, che non abbiano facoltà da Parrocchiani, se non che le Decime  di ciò che è consueto darsi in quell’anno, acciocché detti Parrocchiani abbiano pace, e concordia con i Procuratori e lor Patini delle decime, ed in caso della morte non possano dimandare da detti Parrocchiani altro che un tarì per la Patinanza. Quello però che non avrà, né vorrà avere o/ed conoscere i Procuratori, o Patini, ogni anno di quel e che può, o suole e deve per le decime, resti in potere, e volontà delli detti Procuratori e Patini, in caso di morte.

Osservazione. Ecco approvato un crudele abuso di cui i Secolari avevano fatto tanto schiamazzo; lamentandosi dei Preti, che gli facevano morire senza Sacramenti, per poi dopo morte, obbligare i parenti a riscattarli con grosse somme, altrimenti ricusavano di seppellirli; perché, che altro vuol dire che chi non ha pagato la decima resti in potere de’ Procuratori, e Patini in caso di morte, se [46]nonché se gli neghi la sepoltura, sino a tanto che i loro domestici abbiano pagato tutto l’attrasso, o almeno si transigono?... Al che mi ricordo, che nella Vallata si praticava con scandalo, cinquant’anni addietro, benché a dir vero, le decime non si esigessero più ad un carlino a fuoco. Ma questo rigore veniva da che i Preti erano obbligati a dare la quarta parte di dette decime al Vescovo, che per suo interesse tollerava un’esazione spietata. E se oggi tanto rigore è cessato, si è perché essendosi il Vescovo transatto coi Capitoli sulla quantità di essa Quarta, nulla cura se i medesimi esigano o non esigano decime.

 

Ordinamento XXII - Il ventiduesimo ordinamento si è, che alcuno dei detti Preti avrà litigio con alcun altro dei medesimi Preti, intorno a qualche debito, o di qualsivogliano altre cose, e cause; si chiami avanti dei Procuratori; i quali debbano conoscere le cause di predetti Preti, e secondo la terminino loro discrezione, e prudenza decidano le loro cause e sentenzino, e concludano in esse, e quelle che la giustizia vorrà e comanderà; comandino che si osservi dalle parti, e quello, che non vorrà osservarlo paghi alla Curia del Signor Vesco[47]vo quella pena, che i detti Procuratori imporranno alle parti. E questo stesso si osservi dai laici contro i Preti appellanti nelle cause, e riservate al Signor Vescovo.

Osservazione. Che Monsignor Angelo dasse tanta autorità a questi Procuratori, non me ne meraviglio, perché gl’importava tenere nel Clero di Piedimonte due suoi Fiscali, o siano Provicari, per gli ecclesiastici ma che si avanzi facoltà anche a darli nelle cause de’ Laici, ed imporre alle parti, e di multare ancora gli appellanti, questa è cosa insoffribile, e da meravigliarsi che la Dama avanti a cui si lessero queste frottole, non dicesse adagio un poco, che qui si lede la mia giurisdizione civile, o per meglio la giurisdizione reale.

 

Ordinamento XXIII - Il ventitreesimo ordinamento si è, che se alcun Prete, camminando a piedi, porterà armi proibite, fuorché quando vada in altri paesi, costato ciò a Procuratori, paghi al Signor Vescovo per ogni volta tarì due.

Osservazione. L’asportatore di armi proibite ha da esser preso in flagranti, non basta il costatarseli [48]. Ma quella limitazione è ridicola, fuorché quando vada in altri paesi. Dunque quando il Prete va in altri paesi, può andare carico di stiletti e Mazzagatti, vi pare?... quante inezie!...

Ordinamento XXIV - Il ventiquattresimo ordinamento si è che, nessuno dei Preti ardisca ballare alle pubbliche danze, fuorché quando canterà egli la prima messa, e nelle nozze dei suoi cari, che abitano con Esso nella medesima casa. Chi contravverrà a quest’ordine, costatatosi dai Procuratori, sia tenuto per ogni volta alla pena di due tarì, da pagarsi al Signor Vescovo.

Osservazione. Due cose ha mancato Monsignor Angelo di aggiungere a questo ordinamento. La prima, che fosse lecito al Prete che aveva cantato la sua prima Messa, ballare ancora vestito di camice, stola e pianeta, la seconda che gli fosse lecito di danzare anche nelle nozze della sua serva, che doveva naturalmente abitare con esso fra i suoi cari. A tale ordinamento spropositato tale aggiunta ci voleva sproporzionatissima.

 

[49] Ordinamento XXV - Il venticinquesimo ordinamento si è, che se alcun Prete avrà parole ingiuriose con male animo con alcun Prete, o laico, dopo che sia ammonito dai Procuratori, non farà ciò che gli sarà comandato da essi, sia privato di tutti i frutti del suo beneficio per un anno, li quali siano degli altri Preti.

Osservazione. Questo ordinamento è quasi lo stesso del quattordicesimo, se non che colà parla solo del Prete, che si ingiuria solo con altro Prete, e qui aggiunge anche il Laico, ed il male animo. Ma perché ingiurie verbali, non merita di esser privato, chi le profferisce, dal suo vitto di un anno. Summum jus, Summa injuria.

 

Ordinamento XXVI - Il ventiseiesimo ordinamento si è, che se un Prete farà rumore, o rissa con qualche Prete, o Laico, ed ammonito dai Procuratori, non tacerà e non la finirà, incorra nella pena di due Tarì, da pagarsi al Signor Vescovo.

[50] Osservazione. Se a Monsignor Angelo non fossero piaciuti quei due tarì, applicabili a sé, avrebbe ordinato, che i rissosi si diminuissero, e si mandassero in parti diverse, come fecero co’ loro pastori Lot, ed Abramo. Dunque i due tarì.

 

Ordinamento XXVII - Il ventisettesimo ordinamento si è, che se alcuno contravverrà in tutti i Capitoli, o alcuno di essi, impostili dalli suddetti Procuratori, o uno di loro che abbia la potestà ed autorità sopra ciascuna di dette ordinate, costui resti interdetto, o privato del consorzio dei Preti nell’Officio, e nelle messe. Ed i comandamenti, fatti per qualsiasi voglia dai Procuratori a ciascuno di detti Preti, si osservino immediatamente sotto la pena predetta.

Osservazione. Ma a questo non è fare i Procuratori Ministri di Giustizia, ma Signori assoluti [51] anzi tiranni. Che se S. Pietro, dice che i Vescovi esser debbano, non quasi dominantes in Cleris, sed forma facti gregis ex animo che direbbe a Monsignor Angelo...? piano, che non puoi dare agl’altri quel potere, che non hai parte.

 

Ordinamento XXVIII - Il ventottesimo ordinamento si è, che se alcuno dei Preti commettesse omicidio volontario, o sacrilegio, e violasse una vergine o femine a Dio consagrate, o violentemente conoscesse qualche donna vedova, o maritata, abitante in detto castello di Piedimonte, e tutti i Casali o quarti di detto Castello, in primo luogo si privi del consorzio de’ Preti nell’Officio, e nelle messe, e come scomunicato si abbia per dieci anni, e di tutti i frutti, a se spettanti per dieci anni, i quali siano degl’altri Preti. E questo ancora si intende dei Preti che battessero il Padre e la [52] madre. E siano ancor sottoposti alle altre pene che comandano i Sacri Canoni.

Osservazione. Se sapeva Monsignor Angiolo, che vi erano le pene canoniche per tali enormi delitti, a che fine imbrattare la carta con le sue provvidenze?... Ecco il fine. Voleva infamare i Preti di Piedimonte, come capaci di commettere tali scelleragini. Egli come semplice Arbitro non si accorgeva, che con ciò fare, trapassava i termini del compromesso. In verità non si accorgeva della sua balordaggine, e voleva far da legislatore. Oh che bel Solone!... Oh che eccellente Licurgo!...

 

Ordinamento XXIX - Il ventinovesimo ordinamento si è, che quando accadesse la morte di qualche Parrocchiano, uomo, o donna, acciò tutti i Preti si radunino a seppellirli, quando si toccherà la campana grande nella Chiesa di S. Maria, o di S. Giovanni, se qualche Prete non interverrà all’esequie di quel defunto, si privi della parte della sua limosina o del denaro di sua porzione.

[53] Osservazione. Da questo ordinamento di sopra si è ricavato da noi, che le Chiese di S. Giovanni e di S. Maria erano di una sola Parrocchia. L’uso delle Campane si era dovuto introdurre fra noi dopo il 1233, quando fu edificato il Campanile della Chiesa Cattedrale di Napoli dall’Arcivescovo Pietro di Surrento. Perciò nella nostra antica Chiesa non fuvvi edificato il campanile, e quando lo fu nel Secolo XIII, vi fu edificato sconciamente.

 

Ordinamento XXX - Il trentesimo ordinamento si è, che quando si imporrà la Decima papale, o qualche tassa ai Preti, o il sussidio caritativo dal Diocesano, o per qualsivogliano Prelati, e Signori di tal decima, e tassazione di sussidio caritativo, o saranno visitati per detti Signori, e Prelati; si paghi loro tutto quello, che sarà loro necessario, o per le loro spese; la metà ne paghi l’Arciprete con gli altri Preti, Diaconi e sub diaconi, l’altra metà la paghino a proporzione dei loro benefici. Chi contravverrà sia tenuto alla pena di cinque tarì, da pagarsi alla Curia del Signor Vescovo.

Osservazione. Per la meraviglia dell’Arciprete, il quale ebbe mai Prebenda a parte, ma solo la parte doppia degli altri Preti nelle distribuzioni manuali, ora sia tassato a pagare con gli altri Preti, Diaconi e suddiaconi la metà delle decime papali, sussidi caritativi; ma ciò si intende, che egli con i [54] detti diaconi, e suddiaconi erano... al servizio di S. Maria, gli altri erano Arcipreti di S. Giovanni, Sant’Angelo, e che tanto aveva di entrate solamente S. Maria, quanto S. Giovanni, S. Angelo riuniti insieme; onde S. Maria sola pagar dovea col suo Arciprete, e Preti, diaconi e suddiaconi, quanto pagar dovevano S. Giovanni, S. Angelo. E coi lor Rettori, o Parrochi, o beneficiati, che vogliam dirsi. Che se fosse stato altrimenti, cioè l’Arciprete, vago, senza Chiesa, e senza prebenda, niente avrebbe dovuto pagare.

 

Ordinamento XXXI - L’ordinamento trentunesimo si è, che nessun Prete presuma di dir messa in qualsiasi Chiesa prima dell’Ebdomadario, e senza licenza di esso, ma dopo celebrata la messa del detto Ebdomadario, di poi celebri, chiunque vuole. Chi contravverrà, sia tenuto alla pena di due tarì alla curia del Signor Vescovo. Ed il detto Ebdomadario sia tenuto di venire alla Chiesa avanti, che la campana o campane si suonino l’ultima volta alli vespri, o alle messe quali campane si lecito ad ognuno di suonarle. Chi contravverrà, non avendo compagni in detta sua assenza, paghi per ogni volta al Sig. Vescovo dieci grana.

Osservazione. Questo capitolo è ordinato per togliere i contrasti fra Preti per prima celebrare; ma vi manca [55] il meglio, cioè lo stabilimento dell’ore, perché altrimenti potendo mai suonare, oh quanti inconvenienti ne potevano seguire, suonandosi ad ore improprie.

 

Ordinamento XXXII - Il trentaduesimo Ordinamento si è, che tutti i poveri, che muoiono nell’Ospedale, o nel detto quarto di Piedimonte, e de’ Casali suddetti, siano tenuti i detti preti a seppellirli, e fare l’Officio de’ Morti senza mercede, per amor di Dio.

Osservazione. Questo è ufficio de’ Curati, e non di ogni Prete, anche  doveva Monsignore ordinarlo ai Rettori, che vi erano allora, ed in appresso alli Patini, che egli avea ordinato, che succedessero dopo l amorte di quelli in luogo Loro.

 

Ordinamento XXXIII - Il trentesimo terzo ordinamento si è, che dopo che sarà fatta l’Unione delle Chiese predette dopo la morte di tutti i Cappellani, che hanno benefici per le medesime, sia lecito a tutti gli uomini di detto Castello di Piedimonte, ed abitanti in esso, e nei Casali prenominati in loro [56] morte farsi seppellire in alcuna delle Chiese predette, che avrà eletto, senza ingiuria degli altri che hanno la propria Cappella, e sepolture nelle Chiese suddette senza pagare dritto alcuno per la sepoltura.

Osservazione. Sicché per liberarsi il Popolo dal comprarsi la terra per seppellirsi, ebbe da aspettare la morte di questi Cappellani che la vendevano. Così portava l’abuso di allora, e volesse Dio, che oggi non ne fussero degli altri peggiori.

 

Ordinamento XXXIV - Il trentesimo quarto Ordinamento si è, che tutto ciò che si dà, o si paga annualmente dai Padroni delle Cappelle per servizio ai Preti, sia comune a tutti i Preti suddetti.

Osservazione. Cioè, avvenuto che sia, che dette Chiese restino Collettizie, e vi abbiano parte tutti i Preti; il che non avvenne, come mostreremo in appresso.

 

Ordinamento XXXV - Il trentesimo quinto Ordinamento si è, che nelli primi Vespri, e messa nella Festa della SS.ma [57] Trinità, nella stessa Chiesa o Cappella della Trinità debbano intervenire tutti i detti Preti, ed i Confratelli sian tenuti, e debbano dare a tutti i Preti, che interverranno in detti primi Vespri e messe tre tarì da dividersi comunemente tra di loro.

Osservazione. Parla dello stesso Supposto, che le Chiese di S. Maria e S. Giovanni diventassero collettizie, nel qual caso i tre tarì dovessero dividersi comunemente a tutti, perché prima si davano all’Arciprete, ed agli altri Rettori, nel luogo de’ quali sono succeduti i Canonici e non tutti i Preti. Nota che detta Chiesa della Trinità era allora Filiale di S. Maria, e si governava da una Confraternita dei Laici, che pagano la detta mercede, e non era beneficiale, come fu fatto in appresso. Ma come il Vescovo può imporre obbligo a’ confratelli, ch’erano Laici?... Nota, che la medesima Chiesa sebbene sta situata di Là dal Ponte di Toranello, che è il confine fra Piedimonte e Vallata, Monsignor Angelo, che pose detto confine, stimò metterlo solo perché si sapesse a chi toccava amministrare i Sacramenti [58] dall’una e dall’altra parte di detto confine, e non stimò, che trapassandosi detto confine per altre funzioni Ecclesiastiche, si pregiudicasse il jus parrocchiale, e perciò volle che si osservasse la Consuetudine inveterata di andare in detta Chiesa in detta Festa i beneficiati delle Sei Chiese di Piedimonte. E così credé ancora Monsignor Medici, quando istituì la processione di S. Marcellino, e così si crede in tutte le Città del mondo cattolico, che le Processioni divote non pregiudicano i dritti Parrocchiali, e così ancora le messe, che si cantano nelle Chiese da qualsi siano Sacerdote, e sono come le assoluzioni dei Morti, che si cantano nelle case private attorno ai cadaveri da ciascuno. La ragione di S. Maria sopra detta Chiesa della SS.ma Trinità si è, perché ella era di Lei Filiale.

 

Ordinamento XXXVI - Il trentesimo sesto Ordinamento si è, che lo stesso si osservi nella Festa di S. Lucia, e che i [59] Confratelli siano tenuti, e debbano dar ciò che è solito ai Preti, che interverranno nei primi Vespri e nella Messa.

Osservazione. Anche la Chiesa di S. Lucia detta del Pizzone, è Filiale di S. Maria, ed amministrata da una Confraternita Laica, che per detti Vespri, e messa, dava Tarì sei, e quelli seguita a dare oggi giorno al Capitolo di S. Maria, non ostante, che i Preti non partecipanti fecero ordinare che si dovessero dividere comunemente anche a loro, il che non ebbe effetto, come si è detto della Trinità, perché non mai le Chiese di Piedimonte si ridussero a Collettizie.

 

Ordinamento XXXVII - Il Trentasettesimo Ordinamento si è, che nessuno Prete abbia ardire appropriare a sé le Chiese suddette; né impetrarle da alcuno, ma sempre si governino secondo il solito dalli Confratelli. E chi attenterà tal cosa, o presumerà di attentarla, cada nella pena comminata contro i contravventori del compromesso.

[60] Osservazione. Essendosi provveduto, che dette Chiese soppresse sarebbero state preda degli occupanti, fu pensato di rimediare ordinando, che fossero governate dalle Confraternite, dalle quali ognuna ne aveva; ma non si previde, che le Chiese abbandonate da Preti, sarebbero anche abbandonate dai Laici che non vi sarebbe stati chi le mantenesse, e che sarebbero cadute a terra, come avvenne a S. Pietro e a S. Angelo. Che pensare corto...! Era meglio profanarle in tutto, e farne tante abitazioni de’ poveri.

 

Ordinamento XXXVIII - Il trentottesimo Ordinamento si è, che una volta l’anno dovessero portarsi le Litanie da essi Preti alle Chiese, nelle quali si celebra la Festa, sotto il cui titolo è costrutta, ed ivi celibrino la Messa Solenne di mattina, come nella sera antecedente i primi Vespri. Se alcuno di detti Preti non interverrà in detti primi Vespri, e messa, cada nella pena di grana dieci, purché non abbia giusta causa della sua assenza. E tali Vespri e messa debbano esser celebrati nell’Ebdomadario [61], se vorrà e se sarà presente e dove egli non voglia, gli dica un altro eletto da Lui, altrimenti gli dica uno de’ Procuratori, o altro eletto da loro.

Osservazione. In quanto alle Litanie, che vuol dire Processioni andandosi a tali Chiese, recesserunt ab usu. Ad ogni modo vi è restata la processione che si fa recitando le Litanie, quando si va a cantare la Messa nella Chiesa della SS.ma Trinità.

 

Ordinamento XXXIX - Il Trentanovesimo Ordinamento si è, che i detti Preti siano tenuti, e debbano per riverenza di S. Domenico, di S. Tommaso e di S. Pietro martire portare le Litanie alla Chiesa di S. Domenico nelle loro feste, ed ivi cantare i primi Vespri e la messa la mattina, se sarà in piacere de’ Frati. E chi di detti Preti non interverrà, né avrà giusta causa di sua assenza, sia tenuto alla pena di dieci grana, da pagarsi al Signor Vescovo.

Osservazione. Non è in uso, né vi è documento, che vi sia stato, perché i Frati hanno fatto sempre Essi le loro feste [62], e cantato le Messe. E questo Capitolo ve lo fece aggiungere D. Sveva, che aveva fondato detto Convento intorno al 1380.

 

Ordinamento XL - Il quarantesimo Ordinamento si è, che detti Preti siano tenuti, e debbano portare le Litanie in ogni venerdì nella Quaresima, fuorché nel Venerdì Santo, a quella Chiesa, che sembrerà alli Procuratori. Chi non interverrà, paghi di pena dieci grani al Signor Vescovo. E se ai Cappellani, che sono ora nella Chiesa di S. Maria piacerà, in altro caso questo ordine, si osservi dopo la loro morte.

Osservazione. Non essendo piaciuto alli Cappellani di allora, piacque neppure dopo la loro morte ai Loro Successori, onde poi nei giorni della Quaresima si introdusse in diverse Chiese di Piedimonte cantarsi il Completorio con l’esposizione del Venerabile.

 

Ordinamento XLI - Il quarantunesimo Ordinamento si è, che i detti Procuratori debbano comparire in tutti [63] i negozi toccanti i detti Preti tanto per ragione dei benefici, che abbiano in comune, quanto a rispetto dell’ordine, avanti a qualsivoglino Prelati, e Signori per parte di detti Preti. E tutto ciò, che sarà conchiuso e terminato da essi Procuratori con deliberazione di buone partito, avendone però prima dato parte a tutti i Preti, si abbia da tutti per fermo. E chi contradirà, sia tenuto alla pena di un’oncia di oro al Signor Vescovo.

Osservazione. Non contento Monsignor Angelo di aver fatto questi Procuratori dispotici, e tiranni del Clero in tanti dei precedenti ordini, cominciando dal Quinto di essi replica ora le parole di quello ed aggrava la pena di due tarì, colà imposta a quella di una oncia d’oro solo che un Prete contradicesse e per miracolo domanda, che prima ne abbia dato parte a tutti i Preti. Ma darne parte, e proibito poi di contradire, altro on è, che confirmare maggiormente i Tiranni.

 

Ordinamento XLII - Il quarantaduesimo Ordinamento si è, che attiene che ciascuno si ricordi del beneficio ricevuto, ed acciò non si perda la memoria di una così grande, giusta, e buona [64] opera nei presenti e futuri Preti, contenuti in questa ordinazione, e capitoli, che fu principio, e causa di questa buona opera ad esso Vescovo Angelo, ed alla dette D. Sveva, o Sueva, né potendosi essa rimeritare degnamente da essi Preti, né dagli uomini di detto Castello; siano perciò i medesimi Preti tenuti, a peso della loro coscienza, una volta l’anno, dopo la morte di essi Signori fare e cantare l’Ufficio de’ Morti, e la messa per la loro anima.

Osservazione. Miracolo, che non ci ha posto la pena pecuniaria! Tanto più, che doveva sapere, che dopo la sua morte, e quella di D. Sveva i detti Preti avrebbero danzato, o dannato la loro memoria, come di malefici, e non di benefici, giacché quasi tutti i loro 42 Capitoli furono dannosi e fatali alle Chiese, ed ai Preti di Piedimonte, essendo da essi incominciato le tante liti, e brighe, durate per tanti Secoli, come andremo vedendo, e Dio voglia che non ne durino altrettanti in appresso.

Fine del Laudo.

                           Continua parte inedita

 

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[1] Regi. dei battezzati di S. Maria Maggiore, vol. 5, foglio 33.

[2] Reg. dei Defunti di S. Maria Maggiore, vol. 5, pag. non numerate.

[3] Cfr. A.S.M.V.: Antologia del Medio Volturno, Napoli 1975, pag. 23.

¨ N.B.: Nel manoscritto la Cronaca occupa da pag. 111 a 314. Nella presente pubblicazione i numeri sono mantenuti fra parentesi quadra. In tal modo si può far riferimento al manoscritto.

Nel prossimo annuario apparirà il « Secolo XVI ».

[4] Laudo, o lodo, vale per regolamento arbitrale.